La questione sulla efficacia e validità dei contratti collettivi di lavoro alla scadenza dei medesimi ha animato per anni il dibattito dottrinale e giurisprudenziale.
Come noto, il contratto collettivo nazionale di lavoro rientra nella categoria dei contratti di lavoro, stipulati a livello nazionale tra le organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro, e nasce dall’esigenza di garantire la liberà organizzativa dell’impresa. La contrattazione collettiva, quindi, è volta necessariamente a considerare i diversi interessi del datore di lavoro, da un lato, e dei lavoratori, dall’altro, in un’ottica di autonomia collettiva, riconosciuta a livello nazionale.
Normalmente i contratti collettivi hanno una vigenza di tre anni, sia per la parte normativa che per quella economica: il contratto collettivo consente un recesso unilaterale o disdetta, permettendo così che le parti possano rinnovarne il contenuto, senza vincoli e arresti sulle vecchie pattuizioni.
Sul punto si registrano, peraltro, diversi orientamenti: i contratti collettivi, anche detti di diritto comune, costituiscono manifestazione dell’autonomia negoziale e operano solamente per il periodo concordemente voluto dalle parti e, grazie appunto al principio di autonomia negoziale, le parti ben potrebbero volontariamente applicare le disposizioni normative ed economiche del contratto collettivo oltre la scadenza, anche solo per facta concludentia.
Molte le sentenze che, negli anni, si sono mostrate favorevoli alla ultrattività del contratto collettivo (Cass. 21 aprile 1987, n. 3899; Cass 22 aprile 1995, n. 4563; Cass. 5908/03, Cass. 23614/10).
Si consideri a tal proposito Cass. 23614 del 2010 secondo cui “Tenuto conto della materialità dei fatti, in se stessa non contestata, vale a dire del comportamento complessivo tenuto dalle parti nel corso degli anni, la società, in realtà, non è receduta dall’accordo originario, ma piuttosto ne ha limitato la portata; a tutto concedere il recesso è stato parziale.
In ogni caso il fatto che una delle parti abbia receduto unilateralmente da un precedente accordo non può valere a legittimare il mancato adempimento delle obbligazioni che derivavano appunto dall’accordo stesso.
Il criterio secondo cui le obbligazioni, di regola, non possono avere carattere perpetuo, può valere per le obbligazioni poste a carico di una sola parte, non per quelle che, all’interno di un rapporto contrattuale sinallagmatico di carattere continuativo, si contrappongono ad altre obbligazioni a carico di una altra parte e trovano in esse la propria causa giustificativa, e che, se non è prevista espressamente una scadenza, permangono fino a quando la controparte contrattuale provveda a dare esecuzione alle obbligazioni a proprio carico.
E’ quanto avviene appunto nei rapporti di lavoro.
Le erogazioni da parte del datore di lavoro trovano la loro causa nelle prestazioni lavorative dei dipendenti, intesi sia come singoli che come collettività, e a loro volta queste prestazioni trovano la loro causa giustificativa nelle erogazioni a carico del datore.
Tra le erogazioni a carico del datore rientrano tutte le somme di denaro, a qualsiasi titolo anche diverso dallo stipendio di base e delle voci previste dalla contrazione collettiva, corrisposte ai dipendenti in maniera stabile e continuativa.
Il datore di lavoro, perciò, non può recedere unilateralmente, senza un accordo preventivo, dall’obbligo a suo carico di corrisponderle.
Cessare quelle erogazioni integra, quando non abbia una specifica giustificazione di carattere giuridico (e non semplicemente di natura economica) una forma di inadempimento contrattuale, che può essere, secondo i casi, totale o parziale.”.
Il problema dell’efficacia del contratto oltre il termine è stato risolto, anche se (pare) non definitivamente, dalla Cassazione a Sezioni Unite con la sentenza 30 maggio 2005, n. 11325 2005 che ha escluso che si possa parlare di ultrattività del contratto collettivo, atteso che le clausole del contratto, così come legittimamente volute dalle parti, perderebbero la loro efficacia e si mostrerebbero in aperto contrasto con il principio sotteso all’art. 39 della Costituzione.
Il tentativo di inquadrare quindi la questione all’interno delle più ampie categorie di diritto civile, ha dato luogo a numerosi sforzi interpretativi e ancora oggi risulta di difficile soluzione, stante la varietà delle diverse ipotesi di contrattazione collettiva, ciascuna con le proprie peculiarità.
Il punto nodale riguarda essenzialmente il vuoto normativo che si viene a creare una volta scaduto il contratto collettivo. Sembrerebbe auspicabile considerare la vigenza ulteriore delle norme che hanno disciplinato i rapporti di lavoro. Ma la perentorietà delle Sezioni Unite della Cassazione ha escluso tale applicazione, che sarebbe in contrasto, come già detto, con la garanzia prevista dall’art. 39 Cost.
La libertà sindacale, quindi, può sempre mettere in discussione la validità dei contratti, attraverso gli strumenti di disdetta o di recesso, ma ciò che rileva è l’effetto normativo sui singoli rapporti contrattuali. Occorre quindi soffermarsi sulla funzione della durata del contratto collettivo.
Da sempre, la durata del contratto collettivo è stata lo strumento che ha permesso di rimettere in gioco le diverse priorità delle categorie che vi aderiscono: il termine finale del contratto, quindi, assolve la funzione di impegno programmatico di astensione da eventuali rivendicazioni fino alla data concordata. (si veda Cass. 4563/95 secondo cui “La Corte ritiene che l’efficacia di una pattuizione – determinativa della entità della retribuzione – contenuta in uno strumento collettivo non sia segnata dal termine finale dello stesso ma che spieghi una sua ultrattività, almeno sino a quando non ne intervenga uno nuovo che lo sostituisca totalmente per le considerazioni che seguono.
In un comune contratto civilistico di durata il termine di efficacia finale segna il limite entro il quale si protrarranno le prestazioni che però attengono a beni nella piena disponibilità delle parti.
In quel particolare e speciale rapporto di durata che scaturisce dal contratto di lavoro la prestazione (retributiva) del datore di lavoro assume un suo rilievo di carattere costituzionale perché oltre a doversi presentare come adeguata alla prestazione lavorativa risulta altresì funzionalizzata all’esistenza libera e dignitosa per il lavoratore e la sua famiglia (art. 36 Cost.)”.
Alla luce di ciò, in ogni caso, la permanente vigenza del contratto collettivo potrebbe assicurare una validità della norma del contratto che sia rispettosa della libertà sindacale e della volontà collettiva. Il principio dell’art. 2074 c.c. non sarebbe così in netto contrasto con il sistema sindacale, che in piena autonomia sceglie di applicare il vecchio regime normativo, e potrebbe sopperire alle conflittualità delle relazioni industriali, di tal ché la stabilità del sistema contrattuale, seppure difficoltosa, potrà essere il perno sul quale si potranno definire i molteplici interessi nel pieno rispetto delle garanzie costituzionali.
Nel frattempo, in attesa di un nuovo auspicabile intervento delle Sezioni Unite, per il lavoratore resta la tutela scolpita nella Carta Costituzionale che gli assicura “una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro”.
Dott.ssa Cecilia Fiorentini