Un’interpretazione inaspettata delle norme a tutela dei licenziamenti illegittimi sta oggi sconvolgendo il diritto del lavoro e la tutela dei lavoratori. Una forzatura nella interpretazione della legge che potrebbe avere conseguenze innegabilmente distruttive nella tutela dei diritti.
L’ordinamento italiano prevede la possibilità di recedere dai rapporti di lavoro, seppur a tempo indeterminato. Tale recedibilità è regolata dalle norme del codice civile e dall’impianto normativo del diritto del lavoro.
In particolare, il recesso dai rapporti di lavoro a tempo indeterminato, da parte del datore di lavoro (il licenziamento), deve essere sempre giustificato, come prescritto anche a livello internazionale dall’art. 30 della Carta di Nizza.
Il nostro ordinamento prevede, infatti, che il datore di lavoro possa procedere al licenziamento solo qualora sussista una giusta causa o un giustificato motivo. Quest’ultimo può essere soggettivo oppure oggettivo: può, cioè, essere relativo alla persona del prestatore di lavoro o attinente a ragioni “inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”, come espressamente stabilito dall’art. 3 L. 604/1966.
Per quanto riguarda il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, la Suprema Corte di Cassazione lo scorso 7 dicembre 2016, si è pronunciata con una sentenza cha ha destato non poco clamore.
La Corte ha, infatti, ritenuto prevalenti sul diritto al lavoro, le ragioni di impresa al perseguimento del profitto, così aderendo alle numerose sollecitazioni che il legislatore ha rivolto, negli anni, alla magistratura del lavoro affinché la stessa, nel vagliare la legittimità di un licenziamento, non entrasse nel merito delle scelte imprenditoriali.
I Giudici di Piazza Cavour, infatti, andando contro al prevalente orientamento della giurisprudenza di legittimità, hanno stabilito che fosse legittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato al fine di far fronte all’esigenza di rendere più snella la gestione aziendale e quindi di ottenere un maggior profitto al minor costo di lavoro. La decisione della Suprema Corte è motivata, in una prima parte, sulla base dell’art. 41, 1° Comma della Costituzione che sancisce il principio della libertà dell’iniziativa economica privata.
Tuttavia, tale sentenza omette di considerare che, anche se risponde a verità il fatto che, secondo l’art. 41 Cost. l’assetto organizzativo e produttivo dell’impresa, sia nella sua fase genetica che nell’esercizio della stessa, è rimesso alla “libera” valutazione del datore di lavoro, è ancor più vero che, la libertà di iniziativa economica privata “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà ed alla dignità umana” come espressamente disposto dalla stessa norma costituzionale.
Questo limite va posto in raccordo con tutta la legislazione del lavoro che, seppur fortemente erosa nella tutela dei diritti dalle politiche degli ultimi anni, risponde alla necessità di tutelare i diritti fondamentali del lavoratore, tra cui quello avente ad oggetto la conservazione del posto di lavoro, rispetto al quale la L. n. 604 del 1966, e più specificamente l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, stabiliscono il principio di tutela contro ogni licenziamento privo di giusta causa o di giustificato motivo.
Ciò significa che il giudice, nel caso concreto, deve operare un necessario bilanciamento tra i due diritti, quello dell’imprenditore di raggiungere il profitto, scopo a cui è rivolta l’attività d’impresa, e quello del lavoratore, di non vedersi privato di un diritto costituzionalmente garantito, posto a fondamento della Repubblica dall’art. 1 della Costituzione (l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro), e, tanto meno, della dignità propria di ciascun essere umano.
Nel caso concreto esaminato dalla Cassazione il 7 dicembre, non può negarsi che i principi della libertà di iniziativa economica privata e il diritto del lavoratore alla tutela contro il licenziamento illegittimo debbano coesistere su un piano di parità, anche perché lo Stato deve sempre tutelare il cittadino nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, tra cui il lavoro.
Non sembra quindi che possa essere condiviso il preoccupante ragionamento della Corte secondo il quale, tramite una sterile interpretazione letterale dell’art. 3 L. 604/66, possano operarsi licenziamenti da parte di quel datore di lavoro che voglia solamente procedere ad un “incremento della redditività dell’impresa” e non siano, al contrario, diretti a fronteggiare situazioni sfavorevoli e non risolvibili come la crisi aziendale.
Altro dato allarmante ricavabile dalla lettura della sentenza della Suprema Corte riguarda i confini posti al giudice nell’indagare, nel merito, le scelte imprenditoriali.
I giudici richiamano infatti l’art. 30 della L. 183/2010 (cd. Collegato lavoro) secondo il quale la magistratura non può pronunciarsi sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro.
Tale norma è espressione di una volontà legislativa di enfatizzare il libero potere organizzativo e gestionale dell’imprenditore, le cui scelte vengono reputate in gran parte insindacabili, benché, in una lettura costituzionalmente orientata, esse dovrebbero tener ben fermo il rispetto dell’utilità sociale, essendo fortemente idonee ad incidere sulla condizione dei loro dipendenti. In questo modo, il giudizio, promosso dai lavoratori dipendenti che ritengono di esser stati ingiustamente licenziati, per affermare la tutela dei propri diritti, scadrebbe in un mero atto formale, relegando il giudice ad un ruolo notarile che non gli compete. Il giudice è soggetto solo alla legge che interpreta nel suo complesso, attingendo a tutte le sue fonti (Cost., Leggi, CCNL etc…), e detta funzione istituzionale non può e non potrà mai essere imbavagliata a difesa di esclusivi interessi privati di un imprenditore che decida di incrementare il proprio guadagno, con il sacrificio di una o più posizioni lavorative. Ciò è in contrasto con l’utilità sociale e la dignità umana (sempre art.41 Cost.).
Pertanto deve ritenersi che la sentenza n. 25201/2016, equiparando i principi del diritto al lavoro e della dignità umana alla libertà di iniziativa economica privata, affermi un principio altamente lesivo dei diritti fondamentali dei lavoratori. Il rischio che emerge da detta pronuncia, in ipotesi di conferme in tal senso, è infatti che, fornendo una protezione assoluta all’impresa, si provochi inevitabilmente una compressione dei diritti fondamentali, i quali vengono equiparati ad elementi di disordine nel sistema organizzato del mercato. Da anni assistiamo, infatti, alla lenta caducazione dei principi di diritto a tutela del lavoratore, parte più debole del rapporto di lavoro, in favore dell’affermazione delle assiomatiche e a volte contraddittorie leggi di mercato, irrimediabilmente incuranti della soggettività esclusiva di ogni singolo lavoratore e della stessa utilità sociale.
Ma se prima la possibilità di licenziare un lavoratore era prevista per motivi “organizzativi imprenditoriali” solo in ipotesi di crisi aziendale (“o taglio o affondiamo tutti”), oggi l’imprenditore potrebbe giustificarsi affermando che: “se, con un lavoratore in meno, potrebbe determinarsi un maggior utile, posso legittimamente licenziare, riorganizzando il lavoro con un dipendente in meno, magari caricando sugli altri i suoi compiti.”.
Attendendo, oggi, che i giudici di Piazza Cavour rispondano con forza a tale negazione di diritti, la speranza è di non doversi ritrovare a contemplare il vuoto lasciato dalla continua erosione dei diritti fondamentali, come quei parigini, ricordati da Dominique Rosseau, noto costituzionalista francese, i quali nel 1911, data del furto della Gioconda al Louvre, si ritrovarono, spaesati, a contemplare l’assenza di quel quadro, che per troppo tempo avevano dato per scontato.
La Gioconda, fortunatamente per i francesi, venne rinvenuta dopo due anni, ci si augura che i diritti non debbano essere irrimediabilmente lesi prima di ricevere un’adeguata tutela.
Dott.ssa Alessia Ragusa