Esistono dei casi in cui, pur commettendo un reato, non si viene puniti. Ciò accade qualora il comportamento illecito ricada in una delle situazioni considerate dal nostro codice penale come “scriminanti”. Esse sono in grado di cancellare la necessità di reprimere e punire una determinata condotta, alla luce di particolari circostanze che abbiano causato l’azione criminosa. Ad esempio, quando un individuo commette un reato per difendere sé o i propri cari da una violenza o da una concreta minaccia alla propria vita trova applicazione la legittima difesa, secondo i criteri stabiliti dal codice penale per evitare che essa sfoci in un utilizzo arbitrario della violenza e nel “giustizialismo fai-da-te”.
Tuttavia le ipotesi di “scriminanti” (così come definite nel diritto penale) non si arrestano alla semplice legittima difesa, ma si estendono anche ad altre di uguale importanza come l’esercizio di un diritto, l’adempimento di un dovere, l’uso legittimo delle armi e lo stato di necessità. Proprio quest’ultima rappresenta una delle più controverse e discusse ipotesi del diritto penale, a causa dell’estrema volatilità della sua definizione e della obiettiva difficoltà di interpretazione ed applicazione, che la rendono bisognosa di estrema ponderazione. Infatti, secondo l’art. 54 del codice penale, si agisce in “stato di necessità” quando si è costretti a compiere determinati atti illeciti “dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo”.
Alla luce di ciò, emerge in maniera chiara la complessità di tale principio, dovuta all’esigenza di determinare di volta in volta la sussistenza dei requisiti necessari per la sua applicazione, come il pericolo da cui ci si intende proteggere, la conseguente reazione da parte del soggetto sottoposto a siffatto stato, l’appropriatezza del sacrificio che, a causa di tutto ciò, viene attuato nei confronti di altre esigenze contingenti, da cui deriva il carattere “amorale” (e non immorale) dello stato di necessità: infatti esso, indipendentemente dalla rilevanza dell’interesse con cui entri in contrasto, ne pretende il sacrificio per salvaguardare l’esigenza primaria sottoposta al pericolo derivante dalla necessità impellente.
Nonostante la problematicità di tale norma, essa ha trovato larga applicazione nella giurisprudenza, in casi molto diversi fra loro. Sono rilevanti, a tal proposito, diverse sentenze della Corte di cassazione inerenti giovani donne costrette a prostituirsi a causa della loro condizione di schiavitù.
In tali casi la Corte, dinanzi alla quale si contestava il reato di atti osceni in luogo pubblico, commesso da una ragazza costretta a consumare un rapporto carnale in mezzo alla strada, ha riconosciuto l’applicabilità della causa di giustificazione dettata dall’art. 54 del codice penale, alla luce di una sentenza precedente in cui la stessa imputata di questo reato era stata riconosciuta come sottoposta ad un vero e proprio regime di schiavitù e sottomissione nei confronti del suo aguzzino, che la obbligava a compiere tale attività a pena di sevizie, percosse e minacce di morte per sé ed i suoi cari.
In tale frangente emerge chiaramente il “sacrificio” imposto dallo stato di necessità di non punire un comportamento di per sé illecito (atti osceni) giustificato, tuttavia, alla luce di uno stato di costrizione materiale e morale nei confronti del soggetto autore della condotta.
L’applicazione dello stato di necessità potrebbe riscontrarsi anche in un’altra casistica abbastanza diffusa: quella delle occupazioni di immobili a scopo abitativo. In tale frangente, tuttavia, gli esiti sono nettamente differenti rispetto al caso precedente. Infatti, la Cassazione in tal caso ha da sempre (fin dagli anni ottanta) scelto di dare una lettura fortemente restrittiva della norma, non riconoscendone l’applicabilità. Ciò poiché, alla luce di quanto definito dalla legge, non si può giustificare la commissione di un reato a fronte di una situazione di disagio permanente o cronico (come nel caso della mancanza di un’abitazione), in quanto il “sacrificio” imposto dallo stato di necessità deve essere circoscritto in un arco di tempo ben definito e, soprattutto, non può portare all’acquisizione di fatto di diritti di cui non si dispone. Di conseguenza risulta ineludibile il requisito del pericolo “concreto ed attuale”, cioè circoscritto nella sua durata temporale, proprio per evitare che il carattere “amorale” dello stato di necessità possa portare ad una sua applicazione distorsiva ed iniqua.
Ed è proprio seguendo questo parametro fondamentale che trova giustificazione la recentissima decisione della Suprema Corte di non condannare un giovane senzatetto alla luce dell’applicazione a suo vantaggio della scriminante in questione. La vicenda trattata vedeva il giovane condannato in entrambi i gradi di merito per un furto dal valore complessivo risibile (4€ all’incirca), volto unicamente a soddisfare un’esigenza primaria ed improrogabile come quella del nutrimento; tale accusa ha poi trovato una mitigazione iniziale in mero tentativo (poiché il senzatetto non è mai stato in grado di portare a termine l’azione illecita, essendo stato notato da alcuni clienti mentre sottraeva alcuni prodotti alimentari per poi essere immediatamente fermato dal personale del supermercato).
In tale frangente si riscontra abbastanza agevolmente il carattere attuale del pericolo e dell’esigenza (la fame) che ha spinto l’autore del reato a compiere l’illecito, pur non portandolo a termine. Tuttavia, tale sentenza non rispecchia solamente quello che già in passato si era detto riguardo a questa particolare ipotesi contemplata nel nostro diritto penale, ma ha avuto il merito di mostrare un volto più umano di una giustizia che troppo spesso è lontanissima dai bisogni reali delle persone, forse troppo chiusa in tecnicismi e formalismi tali da renderla spesso “senz’anima” e lontana dall’esigenza di giustizia vera e propria.