Le dimissioni di Paola Muraro dalla carica di Assessore all’ambiente del Comune di Roma sono solo l’ultimo di una lunga serie di episodi che vedono coinvolti dei politici in indagini e procedimenti avviati a loro carico da parte della magistratura. Il clamore suscitato da tali episodi ha accentuato quel giustizialismo contrario ai più classici canoni dello stato di diritto che spesso rende una persona sottoposta a mere indagini già colpevole, addirittura prima che la stessa magistratura sia in grado di appurarlo.
È necessario, tuttavia, fare chiarezza in merito ad alcuni termini e concetti che quotidianamente vediamo utilizzati sui quotidiani in merito alle vicende di cronaca giudiziaria che, troppo spesso, finiscono per assumere delle connotazioni del tutto fuorvianti. In particolare è d’obbligo chiarire la portata del procedimento di indagini e del vero e proprio processo.
Le indagini, definite dal codice di procedura penale come “indagini preliminari“, rappresentano quella serie di atti posti in essere da parte del pubblico ministero, di concerto con la polizia giudiziaria, aventi lo scopo di ricercare le prove (come ad esempio l’audizione delle persone informate dei fatti, le perizie, le prove documentali) idonee ad individuare un responsabile per il comportamento illecito avvenuto. Ciò avviene avvalendosi dei mezzi messi a disposizione dal nostro codice penale come la perquisizione, l’ispezione, il sequestro e l’intercettazione. In seguito, quando non viene ritenuto lesivo per le esigenze dell’indagine in corso (stratagemma che comporta la possibilità di far svolgere parte delle indagini anche prima dell’emissione di tale atto), è previsto l’invio di un avviso di garanzia nei confronti della persona che viene sottoposta ad indagini. Tuttavia una tale comunicazione non implica un’automatica dichiarazione di colpevolezza a carico dell’indagato, ma al contrario assolve ad un dovere di tutela delle garanzie a favore dello stesso (in particolare del diritto di difesa) informandolo delle indagini a suo carico e permettendogli, in seguito, di visionare le prove raccolte contro di lui.
A dimostrazione ulteriore dell’impossibilità di considerare lo svolgimento di mere indagini alla stregua di una sentenza di condanna vi è il passaggio dell’udienza preliminare, il cui svolgimento viene tuttavia escluso per particolari ipotesi di reato come la violenza o la minaccia a pubblico ufficiale, la resistenza a pubblico ufficiale, oltraggio ad un magistrato in udienza, rissa e furto aggravati e ricettazione (art. 550 c.p.p.). Essa si svolge dinanzi ad un magistrato diverso dal pubblico ministero (il giudice dell’udienza preliminare o g.u.p.), che ha il compito di accertare l’ammissibilità e la ragionevolezza del capo di accusa formulato dal p.m. e presentato mediante la richiesta di rinvio a giudizio, che rappresenta l’atto conclusivo della procedura d’indagine. La testimonianza del fatto che le indagini e l’eventuale rinvio a giudizio non siano sinonimi di colpevolezza è fornita dal possibile esito dell’archiviazione, che permette di accantonare i risultati delle indagini qualora si rivelino inconcludenti o infondati.
Non è raro, inoltre, che durante lo svolgimento delle indagini vengano disposte delle misure di carattere cautelare nei confronti della persona indagata. È fresca la notizia dell’arresto di Raffaele Marra nell’ambito delle indagini perpetrate dalla guardia di finanza sulle nomine dell’attuale giunta capitolina. Tale azione rientra proprio nell’ambito delle diverse misure cautelari disponibili nel nostro codice di procedura penale, insieme all’arresto domiciliare, all’allontanamento dalla casa in cui soggiorna la propria famiglia (volta a prevenire episodi di violenza domestica) e molte altre. Esse troppo spesso vengono confuse per delle vere e proprie pene che, come tali, denotano un principio di responsabilità e colpevolezza a carico del soggetto colpito. In realtà il loro scopo non è quello di punire, ma di prevenire l’eventuale reiterazione dei reati o il compimento di nuovi, così come la necessità di evitare che il soggetto indagato possa distruggere o inquinare le prove che lo possano incriminare per le sue condotte qualora ne abbia la possibilità e, infine, prevenire l’eventuale fuga del soggetto per sottrarsi alla giustizia.
Ma le cause che giustificano l’applicazione di una di queste misure sono identificabili nei gravi indizi di colpevolezza che, nel mezzo delle indagini, iniziano ad emergere a carico del soggetto indagato. La sussistenza di questi ultimi, insieme ad almeno una delle esigenze cautelari sopra elencate, rappresenta la vera e propria molla in grado di far scattare la misura cautelare. Inoltre, l’utilizzo della misura cautelare, proprio per non sostituirsi alla pena, viene previsto per tempi limitati e certi che devono essere tassativamente indicati nell’ordinanza che dispone l’applicazione della misura prescelta e che potranno essere rinnovati qualora continuino a sussistere gli elementi che ne giustificano l’applicazione.
Nel caso della custodia in carcere (che è senza dubbio la misura più drastica ed eclatante di tutte), la legge prescrive una durata massima di trenta giorni, prorogabili fino a novanta qualora le operazioni di indagine si rivelino più complesse del previsto. È inoltre prevista la possibilità di contestare l’applicazione di tali misure attraverso degli specifici rimedi, presenti nel nostro codice di procedura penale affinché gli interessi e le garanzie del soggetto indagato e destinatario della misura cautelare non vengano mai sacrificati inutilmente: essi sono il riesame, l’appello e il ricorso per cassazione. Anche nel caso delle misure cautelari (e forse ancora di più che per le indagini) il rischio di confondere una mera esigenza cautelare con un’effettiva punizione dell’individuo è alto, anche grazie all’assidua presenza dei media che troppo spesso non specificano l’effettiva portata della misura in atto ma si limitano a mostrare immagini di arresti e manette che troppo facilmente possono essere travisate.
Il momento in cui la colpevolezza di una persona viene acclarata è costituito dal processo. In esso l’accusa e la difesa si fronteggiano con le rispettive tesi dinanzi al giudice, soprattutto durante la fase del dibattimento . Grazie ad esso sarà possibile pervenire ad una sentenza che tenga il più possibile conto degli elementi raccolti durante le indagini per accertare in maniera il più possibile obiettiva la colpevolezza dell’imputato.
Ciò deriva dal fatto che il dibattimento è impregnato del principio del contraddittorio che permette il confronto diretto fra accusa e difesa e, di conseguenza, permette anche la piena esplicazione del diritto di difesa sancito dalla Costituzione all’art. 24. Se, infatti, la colpevolezza di una persona venisse dichiarata mediante la semplice fase d’indagine, si violerebbe l’obbligo statale di un giusto processo ma, soprattutto, si sottoporrebbe il cittadino ad un pericolo costante di persecuzione ed incarcerazione da parte dello Stato che, avvalendosi de suoi mezzi di gran lunga più efficaci di quelli di un singolo, potrebbe addirittura far tornare in auge metodi di repressione del dissenso che da molti anni abbiamo fortunatamente dimenticato.
In conclusione, sarebbe meglio prestare maggiore cautela quando si intende addossare ad una persona la responsabilità di un reato sulla base di semplici indagini a suo carico: ciò perché una giusta indignazione per il compimento di un fatto illecito potrebbe facilmente trasformarsi in un’ingiustificabile gogna che, soprattutto nei casi maggiormente tenuti in considerazione dai media, può comportare delle conseguenze gravi e talvolta irreparabili per la persona coinvolta, soprattutto qualora essa sia innocente.
Dott. Mattia Palatta