Miranda e Stefano si sono sposati quattro anni fa. Stavano insieme da cinque anni, convivevano da uno e il matrimonio sembrava la naturale prosecuzione della loro storia. Erano felici. Così felici che dopo un anno di matrimonio avevano deciso di avere un figlio. E così è arrivata Lavinia. Per i primi mesi sembrava andare tutto bene. Poi Miranda doveva tornare a lavoro ed era necessario decidere come fare. Asilo nido o baby sitter? E così iniziarono i primi diverbi. Piano piano qualsiasi cosa era diventata un pretesto su cui discutere. Cosa farle mangiare, quale copertina da metterle nella culla, la temperatura dell’acqua per il bagnetto, quando portarla al parco a fare una passeggiata. Fu quando Stefano accennò al fatto che forse era meglio se Miranda lasciasse il lavoro per badare alla bambina, che lei capì che forse era il caso di separarsi. Due modi di pensare troppo diversi, due visioni della vita troppo lontane. Anche Stefano aveva iniziato a pensarci. Sicuramente non era stata una decisione semplice, soprattutto perché c’era Lavinia. Entrambi sapevano che, nonostante l’affidamento congiunto, la bambina avrebbe vissuto con la madre. È quasi sempre così quando una coppia si separa.
In Italia, negli ultimi anni, si è assistito ad un forte calo del numero dei matrimoni. Secondo i dati ISTAT nel 2014 si sono sposate 189.765 coppie. Il dato segue il trend di discesa, ma è la diminuzione minore dal 2008. Nel 2015 c’è stata invece una inversione di tendenza. Il numero di matrimoni è infatti aumentato raggiungendo quota 194.377. Sono però aumentate anche le separazioni.
Con la legge 54/2006 si è riformato l’articolo 155 del codice civile, che prevede la disciplina relativa all’affidamento dei figli minori in caso di separazione. Prima della sua radicale modifica, la regola generale prevedeva che il giudice dovesse decidere a quale dei due genitori affidare il bambino in maniera esclusiva. Un primo passo avanti fu fatto nel 1970 con la previsione dell’affidamento congiunto (in cui si ha l’esercizio della potestà genitoriale da parte di entrambi i genitori secondo un orientamento comune) e dell’affidamento alternato (la potestà genitoriale è esclusiva ma a periodi alternati). Entrambe le ipotesi, per motivi diversi, sono state ben poco applicate. Si è arrivato quindi al 2006, ossia quando si è previsto che il giudice, in materia di affidamento dei figli, dovesse tenere in considerazione l’esclusivo interesse del minore, preferendo la soluzione dell’affidamento condiviso. Nel 2013, con la riforma del codice civile relativa alla filiazione, la disciplina dell’affidamento è stata spostata agli artt. 337-bis e seguenti, restando però sostanzialmente invariata nei contenuti. L’affidamento ad entrambi i genitori non esclude però la necessità di prevedere quale sia il genitore presso il quale abiterà stabilmente il minore, con il conseguente problema del collocamento. Per lungo tempo ha prevalso il principio della “maternal preference”. Secondo tale criterio bisognerebbe preferire il collocamento dei figli (specie se in tenera età) presso la madre. Ciò significa che a meno che la madre non risulti palesemente inadeguata come genitore, verrà preferita al padre per il collocamento dei minori. Tale tendenza è stata anche di recente confermata da una sentenza della Corte di Cassazione. Un mese dopo questa sentenza il Tribunale di Milano ha rimescolato le carte in tavola. È stato infatti affermato che il criterio della maternal preference non ha rilevanza giuridica dovendo invece prevalere i principi della bigenitorialità piena e della parità tra i genitori che hanno ispirato la riforma del 2006. In base a tali principi è quindi necessario valutare caso per caso con quale genitore vivrà prevalentemente il bambino.
Questa nuova tendenza della giurisprudenza fa forse seguito ad alcuni studi portati avanti negli anni ‘70 da John Bowlby. Lo psicologo inglese afferma che è la qualità della relazione fra il bambino e il caregiver (colui che si prende cura maggiormente del bambino e che diventerà la sua “base sicura”) e non il sesso o il vincolo parentale, a fornire la necessaria serenità e senso di protezione per una crescita psicofisica adeguata. In altre parole, non importa se il collocamento del bambino avvenga presso la madre o il padre, contando unicamente la qualità della relazione che si instaura. Alla luce di queste considerazioni, viene meno qualsiasi scientificità della maternal preference, che non fornisce al bambino una migliore condizione di crescita in maniera del tutto certa. Oltre alle questioni psicologiche, vi sono anche degli aspetti giuridici che fanno protendere per una soluzione incentrata su di un approccio casistico per la problematica del collocamento. Innanzitutto, preferendo a prescindere la madre si andrebbe a violare l’articolo 3 della Costituzione che prevede il principio di uguaglianza e di pari dignità anche tra uomo e donna. Presumendo che sia meglio che i figli abitino con la madre si avrebbe quindi un paradossale caso di discriminazione maschile, dando per scontato che le capacità genitoriali del padre siano inferiori. Inoltre la riforma del 2006 e quella successiva del 2013 avevano entrambe come obiettivo quello di tutelare maggiormente l’interesse del minore: se il criterio della maternal preference trovasse applicazione, lo spirito che ha animato entrambe le riforme risulterebbe tradito. È forse quindi necessario verificare di volta in volta le capacità genitoriali di entrambi i genitori. Ma è anche necessario tenere presente e valutare gli effetti psicologici sui figli. Solo mettendo insieme questi due elementi si potrà arrivare alla migliore soluzione sia sul piano giuridico che su quello della tutela psicofisica del minore. E tale valutazione non può essere fatta a priori.
Alessia Fortino