Il Decreto Dignità è in questi giorni in via di approvazione, non senza polemiche ma, per ora, sostanzialmente senza modifiche, almeno per la parte che riguarda il diritto del lavoro
Sul fronte del diritto del lavoro, il Decreto è, senza dubbio, il primo atto legislativo emanato in favore dei lavoratori dal 2012, ovverosia dalla cd. Legge Fornero (L .92/2012)
Dal 2012 ad oggi, prima della emanazione del Decreto Dignità, si sono susseguite una serie di “riforme” (che in realtà riforme non sono) che hanno notevolmente ridotto i diritti acquisiti dai lavoratori dagli anni ’70.
Prima fra tutte, in questa tendenza riduttiva dei diritti dei lavoratori, la “Legge Fornero”, che ha introdotto nel sistema normativo il contratto a termine “acausale” e limitato l’applicazione dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori (L. 300/1970) ai soli casi di macroscopiche violazioni legislative del licenziamento (come ad esempio la discriminazione, o la manifesta insussistenza della motivazione).
Tale normativa è stata ripresa ed ampliata dal cd. Jobs Act, che con i decreti legislativi 81/2015 e 23/2015 ha, rispettivamente, liberalizzato completamente il contratto a termine “acausale”, fino ad un massimo di 36 mesi con 5 rinnovi, ed eliminato definitivamente l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori per le nuove assunzioni, introducendo, al posto della reintegra, un mero indennizzo economico commisurato alla anzianità aziendale con un minimo di 4 mensilità ed un massimo di 24 mensilità.
Il Decreto Dignità si pone in netto contrasto con tali ultime due “riforme”, seppure non in modo incisivo, né definitivo.
In particolare, seppure tale decreto sia stato definito dal Ministro del Lavoro solo come il primo passo in materia di diritti dei lavoratori, non è sfuggita la mancata reintroduzione dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori proposta anche da un emendamento della Minoranza, attraverso l’abrogazione del contratto a tutele crescenti, fortemente osteggiato dalla maggioranza in campagna elettorale.
Il contratto a tutele crescenti, ad oggi, resta l’unica forma di contratto a tempo indeterminato per tutti i lavoratori assunti dopo il 7 Marzo 2015: sotto tale profilo, il Decreto rappresenta certamente un passo indietro rispetto alle promesse di riforma del lavoro del Movimento 5 Stelle.
Tornando a quanto contenuto nel Decreto, relativamente al contratto a tutele crescenti, il Decreto innalza i limiti minimi e massimi degli indennizzi dovuti dal datore di lavoro al lavoratore in caso di licenziamento illegittimo, portandoli rispettivamente ad un minimo di 6 e ad un massimo di 36 mensilità.
Tale norma, pur non sancendo l’auspicato ritorno alla reintegra per i casi di illegittimità del licenziamento, rappresenta certamente un (piccolo) passo in avanti, considerando che la misura dell’indennizzo rappresenta anche il margine entro cui sviluppare accordi conciliativi precedenti al licenziamento, o anche in sede giudiziale: aver innalzato il limite minimo dell’indennizzo darà certamente più chance al lavoratore, quantomeno di ottenere un (parziale) ristoro economico in caso di perdita del posto di lavoro.
Il tema principale su cui si è però sviluppato prevalentemente il dibattito, politico e giuslavoristico, è rappresentato dalle modifiche apportate alla disciplina dei contratti a termine.
Il decreto punta a scoraggiare l’utilizzo dei contratti a termine, anche in somministrazione, rendendoli meno convenienti a livello contributivo (con un aggravio dello 0,50% per ogni rinnovo) e ponendo dei vincoli, simili a quelli che erano stati eliminati dalle precedenti riforme in favore di una liberalizzazione totale dell’operato delle imprese.
La durata massima del contratto a termine viene ridotta a 24 mesi, dagli attuali 36, con la previsione di un massimo di 4 proroghe, a fronte delle attuali 5.
Viene poi reintrodotta la causale, quando si superano i dodici mesi di utilizzo delle prestazioni del lavoratore.
Tale causale, lungi dall’ “aumentare il rischio contenzioso”, come sostenuto da autorevole dottrina (molto vicina alle imprese) reintroduce un freno all’abuso di tale forma contrattuale, che può essere utilizzata solo per “esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività, ovvero esigenze sostitutive di altri lavoratori;” o per “esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria”.
Al contrario di quanto previsto in merito alla causale, anche dalla Legge Fornero, quando le “ragioni tecnico organizzative produttive o sostitutive” erano di ben difficile interpretazione e si prestavano, da ambo i lati, a strumentalizzazioni e abusi, con conseguente aumento del contenzioso, le causali introdotte dal DL Dignità appaiono, in prima battuta, sufficientemente specifiche.
Il giudice dovrà valutare esclusivamente la temporaneità, l’oggettività e l’estraneità della causale all’ordinaria attività, o la temporaneità dell’incremento dell’attività ordinaria, concetti certamente più concreti delle semplici ragioni tecnico organizzative produttive.
Resta comunque innegabile la positiva tendenza (che dovrà essere confermata dalla legge di conversione) del provvedimento: i lavoratori riconquistano diritti per la prima volta dal 2012.
Modifica rilevante, sempre nel solco della riconquista dei diritti da parte dei lavoratori, riguarda l’impugnativa stragiudiziale dei contratti a termine, il cui termine per impugnare la legittimità del contratto di lavoro e denunciare eventuali violazioni di legge passa da 120 a 180 giorni dalla cessazione del contratto: 2 mesi in più, quindi, per consentire al lavoratore di analizzare la sua situazione e prendere una decisione, magari facendosi assistere da associazioni sindacali o da un avvocato.
Si è sostenuto altresì che la reintroduzione delle causali porterebbe ad un aumento dei procedimenti davanti al Giudice del Lavoro, sensibilmente diminuito negli ultimi anni, in seguito alle “riforme” del 2012 e del 2014.
Tale questione è certamente rilevante: il contenzioso è sì diminuito, ma non certamente per il comportamento virtuoso delle Società, piuttosto perchè ci sono meno diritti e perché farli valere è più costoso, complicato e pericoloso (si pensi ad esempio al contributo unificato, alle brevi decadenze, ai riti speciali in materia di lavoro e alla disciplina delle spese di lite).
E’ ovvio che rendendo (come è stato fatto, soprattutto con il Jobs Act) il contratto a termine libero da una disciplina normativa che ne limiti l’uso, le cause diminuiscano, ma non è sicuramente un dato positivo, poiché in tal modo si legittimano comportamenti “disinvolti” delle aziende nei confronti dei lavoratori precari, già dalle stesse attuato prima del 2012.
La maggiore critica, però, che viene mossa al decreto, balzata anche agli onori delle cronache, è la possibile perdita di posti di lavoro dovuti alle norme più stringenti sul contratto a tempo determinato.
Si dice che il Decreto porterà a una perdita di posti di lavoro, in quanto le aziende, per sfuggire alle causali, alla fine dei 12 mesi non rinnoveranno il contratto al lavoratore, facendogli perdere il posto di lavoro.
Ma se un Azienda che ha formato ed utilizzato un lavoratore per un lungo periodo (come sono i 24 mesi previsti dal contratto), non intende continuare a giovarsene, anche in virtù di un periodo di formazione e prova dello stesso lavoratore piuttosto lungo, quindi assumendolo a tempo indeterminato (con tutti i benefici contributivi, fiscali e normativi previsti per le nuove assunzioni), è verosimile immaginare che tale azienda fosse semplicemente interessata allo “sfruttamento” di una forza lavoro a basso costo, condannando tale lavoratore a una precarietà non solo lavorativa ma anche di diritti.
Avv. Sergio Merlina