Almaviva sono 1666 famiglie che vivono senza uno stipendio. Sono 1666 donne e uomini che non hanno più un lavoro, che consisteva nel chiamare a casa o sul cellulare ognuno di noi per vedersi spesso attaccare il telefono in faccia. Lavoratori di call-center, invisibili ma essenziali per una vita dove tutto è presunto o scontato.
Sono 1666 dipendenti, solo a Roma, di una delle più grandi aziende italiane di servizi che hanno perso, definitivamente, la propria occupazione a causa della decisione dell’azienda di avviare le procedure di licenziamento collettivo dovute alle inefficienze e all’improduttività (a detta dell’azienda stessa) delle sedi italiane, in particolare Roma. Tale decisione, tuttavia, non è conseguenza di un atteggiamento di scarsa professionalità dei lavoratori, ma ad una semplice differenza di costi che la manodopera italiana richiede rispetto a quella che si può trovare a costo infinitamente più basso nei Paesi extracomunitari, secondo il fenomeno della “delocalizzazione” (il trasferire cioè interi impianti produttivi da un Paese ad un altro in cui i costi della manodopera e della manutenzione, oltre a quelli fiscali, siano infintamente più bassi permettendo dei margini di profitto molto più alti).
Il tutto, ovviamente, a discapito della manodopera locale e della dinamicità economica dei Paesi da cui si scappa, che finiscono per diventare sempre più poveri anche a causa della sottrazione delle imposte che sarebbero derivate dalle attività trasferite. A tale fenomeno, di per sé non illegale ma quantomeno preoccupante, il Governo italiano ha tentato di contrapporre delle misure di contrasto attraverso la predisposizione di una serie di incentivi economici per le assunzioni di manodopera locale (soprattutto per i giovani o per il Mezzogiorno, come previsto nell’ultima legge di Stabilità licenziata dal Parlamento poco prima delle festività), oltre che diversi sgravi e agevolazioni dal punto di vista fiscale per le aziende che scelgono di mantenere le loro attività nel territorio italiano.
Tuttavia la predisposizione di tali contromisure non è stata in grado di evitare l’esito catastrofico della trattativa che vedeva coinvolti i lavoratori di tale azienda. Infatti, nonostante il coinvolgimento attivo del Governo (attraverso il Ministero dello Sviluppo Economico), i licenziamenti sono stati confermati all’esatta scadenza di un iter particolarmente complesso e sofferto, costellato di proteste, incontri e accordi mai raggiunti.
Così come accade in ogni realtà aziendale, anche in AlmavivA si sono susseguite tutte quelle fasi che tradizionalmente si avvicendano nei momenti in cui le condizioni che regolamentano il rapporto di lavoro sono sottoposte a cambiamenti.
Esse possono derivare da diverse cause: la scadenza naturale del contratto collettivo, oppure la necessità di modificare le condizioni contrattuali per necessità contingenti. Indipendentemente da ciò, tuttavia, la modifica di tali condizioni è caratterizzata da specifiche procedure che hanno trovato nel tempo un forte radicamento.
Entro i tre mesi precedenti alla scadenza del contratto da rinnovare i sindacati dovranno presentare ai rappresentanti dell’azienda le cosiddette “piattaforme rivendicative“, che riuniscono l’insieme delle proposte e rivendicazioni che si intendono conseguire mediante il nuovo accordo. Con ciò i sindacati si impegnano anche ad astenersi da qualsiasi azione di protesta per la durata degli ultimi tre mesi di vigenza del vecchio accordo e per il mese immediatamente successivo, affinché le parti possano portare avanti le trattative per il rinnovo nella maniera più serena possibile.
Qualora il rinnovo del contratto non dovesse arrivare viene prevista a favore dei lavoratori “l’indennità di vacanza contrattuale“, una somma di denaro che ha come scopo quello di evitare che l’assenza di un adeguato accordo contrattuale possa compromettere eccessivamente il guadagno effettivo dei lavoratori a causa dell’inflazione contro cui i contratti collettivi prevedono adeguati meccanismi di compensazione.
Tuttavia, al di là di tale misura indennitaria, non è previsto alcun obbligo legislativo per il rinnovo dei contratti entro tempi certi, così come non è dotata di alcun valore obbligatorio la pratica della “concertazione” (tranne che per il settore del pubblico impiego). Essa, spesso caldeggiata e invocata dai sindacati durante le loro proteste, consiste nel convocare le parti sociali coinvolte nella trattativa e costituire “un tavolo” dinanzi al quale confrontarsi direttamente per cercare di arrivare ad una soluzione più condivisa possibile.
A volte tale incontro si tiene alla presenza di un organo terzo come il Governo (più precisamente il Ministero dello Sviluppo Economico o quello del Lavoro) che assurge al ruolo di vero e proprio arbitro della trattativa o, qualora il rapporto di lavoro sia quello dei dipendenti pubblici, da parte in causa. L’intervento del Governo, tuttavia, non si limita ad assicurare un’esigenza di stabilità alle trattative ma può manifestarsi anche in maniera ben più incisiva.
Infatti, qualora il mancato rinnovo del contratto collettivo causi dei disagi o dei danni eccessivi alla comunità, è possibile che il Ministero del Lavoro decida di emanare un “lodo governativo” (un decreto ministeriale in cui si fissano i requisiti e le condizioni con cui il rapporto negoziale collettivo verrà rinnovato in maniera autoritativa) con efficacia obbligatoria nei confronti dei soggetti coinvolti nelle dinamiche del rinnovo. Tale strumento costituisce tuttavia una extrema ratio che quasi mai trova applicazione, se non in via potenziale per stimolare le parti coinvolte a raggiungere una soluzione condivisa in tempi brevi, così come accaduto anche nella vicenda AlmavivA.
Così, in seguito alla decisione dell’azienda di avviare le procedure di licenziamento collettivo, i sindacati avevano avviato una lunga concertazione con il coinvolgimento diretto del governo (in special modo il MISE) riuscendo a congelare per sei mesi tale decisione grazie all’attivazione dei contratti di solidarietà difensiva (mezzi con cui grazie al contributo di lavoratori e azienda si tenta di mantenere il livello di occupazione stabile a costo di qualche rinuncia in termini di retribuzione e orario di lavoro dei dipendenti, nonché di contributi diretti da parte dell’azienda) che costituirono una soluzione temporanea finalizzata a permettere alle parti di approfondire le trattative e limare le differenze esistenti.
Nel corso di tale periodo, tuttavia, le differenze sono apparse sempre più incolmabili fra le parti, con il rigetto di proposte di accordo che vedevano di molto diminuite le garanzie e la retribuzione dei lavoratori (così come proposto inizialmente dal Governo) oppure di altre che offrivano l’opportunità di fare affidamento sui sistemi di welfare a disposizione per prorogare ancora il termine della scadenza dei contratti di solidarietà difensiva in essere da maggio del 2016. Tuttavia proprio quest’ultima richiesta, rigettata dall’azienda, ha segnato definitivamente il tramonto di ogni speranza di salvaguardia dei posti di lavoro in pericolo, decretando la conferma delle procedure di esubero a danno dei dipendenti.
La vicenda AlmavivA si è conclusa purtroppo con l’annuncio, il 29 dicembre 2016, della fine delle trattative fra sindacati e azienda, con l’esito irrevocabile dei licenziamenti, congelati sei mesi prima. Tenendo sempre a mente che la delocalizzazione (il trasferimento di alcune unità produttive all’estero) non è di per sé illecita, essa rappresenta pur sempre un grave danno per i lavoratori e per il Paese che la subisce. Infatti tale fenomeno ben rappresenta la tendenza ormai incontrovertibile della mitizzazione del profitto e della sempre più trascurabile attenzione che molte aziende (ma non tutte, per fortuna) ripongono nel trattamento dei propri dipendenti per lasciare spazio sempre più al profitto, che non prevede rimorsi ma solo guadagni. AlmavivA, con il suo rifiuto testardo ad ogni forma di conciliazione e concessione verso i propri dipendenti, si pone in quel solco consolidato secondo cui le persone e i loro bisogni non possono rivaleggiare con quelli del portafogli, contribuendo così a svuotare ancora di più quel concetto che sta alla base della nostra Repubblica: il lavoro è dignità.
Dott. Mattia Palatta