Un anno fa Giulio Regeni moriva in circostanze ancora tutte da chiarire in Egitto, dopo un lungo sequestro e atroci torture, con delle responsabilità ancora da accertare in via definitiva a causa del comportamento ostruzionistico del governo egiziano. L’omicidio di Giulio Regeni, il giovane ricercatore italiano trovato morto il 3 febbraio 2016 al margine di un’autostrada egiziana, pone un interrogativo importante: è obbligatorio per le autorità giudiziarie dei vari Paesi cooperare per risolvere determinate controversie? La risposta a tale interrogativo, tuttavia, non può prescindere da un’adeguata contestualizzazione della vicenda.
Tuttavia non va dimenticato il contesto politico del paese delle Piramidi, che sembrerebbe aver influito in maniera decisiva sul tragico epilogo della vicenda. Infatti sin dal 2013 (anno della cacciata del governo di Morsi eletto in seguito all’abdicazione di Hosni Mubarak dal potere dovuta alla rivolta di Piazza Tahrir) ha trovato insediamento un governo i cui massimi esponenti appartengono all’esercito nazionale, il cui vertice è rappresentato dal generale Al-Sisi, che ha instaurato un vero e proprio regime di stretto controllo delle libertà politiche e personali degli egiziani. In nome della stabilità del Paese, la giunta militare ha preso il potere e lo mantiene mediante una sistematica e sanguinosa repressione di ogni forma di opposizione politica contro il regime dittatoriale.
Siffatta situazione ha rappresentato lo sfondo politico e culturale su cui agiva il ricercatore italiano ed a causa del quale potrebbe aver trovato la morte. Le sue frequentazioni (secondo quanto dichiarato anche da numerose ONG internazionali fra cui Amnesty International) attenevano infatti proprio a quelle classi sociali e rappresentanti politici e culturali del Paese che costituiscono l’opposizione. Di conseguenza, secondo le ipotesi più accreditate al momento dalle organizzazioni internazionali, l’omicidio di Regeni assumerebbe una connotazione politica, seppur condita probabilmente da un grossolano errore di valutazione. Infatti a causa dei suoi incontri con membri delle associazioni sindacali particolarmente invise al governo militare il ragazzo potrebbe aver attirato su di sé il sospetto della polizia militare (che non esita ad utilizzare metodi da vere e proprie epurazioni per stroncare i focolai di resistenza politica) che avrebbe deciso di eliminare il giovane poiché ritenuto (secondo alcuni) un sobillatore o addirittura una spia di un governo straniero. Secondo tale tesi si spiegano anche i segni di torture reiterate sul corpo del giovane che, oltretutto, coinciderebbero con quelli che si rinvengono sui corpi degli altri membri dell’opposizione che hanno subito i medesimi trattamenti.
Purtroppo la cronaca degli avvenimenti che hanno coinvolto il giovane ricercatore italiano continua ad essere avvolta dal dubbio, a causa dell’assenza di volontà, delle autorità egiziane, di svelare la verità e, soprattutto, di collaborare con le autorità italiane per fare chiarezza sull’intero accaduto. Ciò che, invece, appare assolutamente inconfutabile è la violazione non solo dei diritti umani, ma anche di quelle garanzie minime che nel processo penale ogni Stato che si professi appartenere alla categoria degli “Stati di diritto” non deve mai dimenticare. Come, ad esempio, lo svolgimento di interrogatori da parte dell’autorità giudiziaria senza violenze, soprusi o minacce a danno dell’interrogato, o peggio, senza alcun tentativo di estorsione di confessioni o informazioni mediante l’utilizzo di torture.
Tornando tuttavia all’interrogativo posto in sede di introduzione, la risposta, purtroppo, non è così scontata. Innanzitutto è necessario distinguere a seconda che il Paese a cui la nostra autorità giudiziaria richiede assistenza e cooperazione sia membro dell’UE o meno: nel primo caso, esistono delle regole che garantiscono una cooperazione più stretta e, soprattutto, meno demandata alla volontà dello Stato a cui si inoltra la richiesta. Nel secondo caso, invece, molto dipende anche dalle relazioni e dal lavoro delle diplomazie. Infatti l’utilizzo della rogatoria internazionale (l’atto con cui un’autorità giudiziaria richiede ad un’altra il compimento di svariate attività collegate in maniera più o meno diretta alla risoluzione di una determinata controversia) trova attuazione in maniera differenziata, a seconda della modalità con cui si sceglie di azionare tale processo. È infatti possibile trasmettere la richiesta di rogatoria in via diplomatica, avvalendosi così dell’operato dei rispettivi corpi diplomatici che saranno coinvolti nello svolgimento delle attività investigative o di indagine, oppure mediante contatto fra i Ministeri della Giustizia nazionali coinvolti o ancora, in extrema ratio, mediante contatto diretto (in cui la richiesta di rogatoria viene diramato direttamente fra le autorità giudiziarie competenti, rendendo il tutto molto più veloce e semplice).
Non è neppure condivisibile la tesi in base alla quale il rifiuto di cooperazione del governo egiziano si basi sulla facoltà di limitare tale attività nei casi di reati dalla connotazione politica.
Infatti tale giustificazione troverebbe fondamento nell’ipotesi in cui il reato che si intenda perseguire sia esso stesso di carattere politico, e di conseguenza indirizzato contro lo Stato e non qualora il crimine sia di carattere comune ma dovuto a logiche di Stato. Infatti, l’unica giustificazione trova riferimento nella volontà del governo egiziano di non ammettere un errore già di per sé evidente ed incontestabile.
A tal proposito sono altrettanto esemplificativi i tentativi di sviamento messi in atto dalle autorità egiziane rispetto alla realtà dei fatti, culminati nel massacro di cinque uomini accusati di far parte del presunto “commando” che ha aggredito e ucciso Regeni di cui, tuttavia, fin da subito si è venuta a sapere l’estraneità pressoché totale alla vicenda.
In conclusione è innegabile che allo stato attuale dei fatti a causa di un atteggiamento ostruzionistico del governo egiziano, sia quasi vano ogni tentativo delle autorità giudiziarie italiane di arrivare ad una verità chiara ed effettiva, così come testimoniato in maniera incontrovertibile dall’incontro avvenuto ad aprile a Roma fra gli organi inquirenti italiani ed egiziani con lo scopo iniziale di stabilire una collaborazione solida sulla faccenda ma che ha finito per naufragare tristemente. Tuttavia è dovere di uno Stato libero e democratico come il nostro perseverare, non piegandosi ai diktat di Paesi che disprezzano le regole più elementari non solo della cooperazione fra Stati, ma soprattutto di tutela degli individui in nome di regimi autoritari e repressivi. Spezziamoci, piuttosto, ma non pieghiamoci mai.
Dott. Mattia Palatta