Sono più di 250 mila i Siriani che hanno perso la vita negli ultimi quattro anni: tanti quanti sono gli abitati di Venezia. Più di 11 milioni sono le persone fuggite dalle loro case disperdendo in vari Paesi una popolazione pari a quella del Belgio.
Come si è arrivati a tutto questo? Tutto ebbe inizio nel marzo del 2011, quando un gruppo di giovani ragazzi venne arrestato e torturato per aver scritto slogan rivoluzionari sui muri della loro scuola. Le proteste contro il governo antidemocratico di Bashar Al Assad si intensificarono e vennero represse con l’uso della forza armata. Molti manifestanti morirono. A Luglio dello stesso anno centinaia di migliaia di persone occupavano le strade della Siria come gesto di ribellione. Tra i manifestanti iniziarono a formarsi bande di combattenti e ebbe inizio una guerra civile che ancor oggi non vede la fine.
Quella che doveva essere una lotta intestina tra le forze favorevoli e contrarie al governo ora è molto di più. Le forze ribelli antigovernative sono divenute una minoranza rispetto a quelle legate ai Jihadisti e agli Islamisti (ISIS e AlQaeda). L’auto proclamato Stato Islamico, approfittando della situazione di caos, ha conquistato grandi parti della Siria e dell’Iraq, fino a proclamare la nascita del cosiddetto “Califfato” nel 2014.
Nel settembre del 2014 le forze internazionali sono entrate in campo. Una coalizione composta da Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna ha iniziato a portare avanti dei raid aerei per “distruggere ed infine eliminare completamente” l’Isis come ha dichiarato il presidente Obama. La Russia di Putin, d’altra parte, mostra il suo totale appoggio al governo siriano. Da Ottobre di quest’anno, infatti, ha stanziato la propria flotta nel Mar Mediterraneo di fronte alle coste siriane al fine di “radere al suolo” Aleppo, ultimo baluardo per molti ribelli.
La Commissione Onu non ha esitato nel dire che tutte le parti del conflitto siriano hanno commesso crimini di guerra inclusi omicidi, torture, rapimenti e stupri.
Ma come e perché in un’ottica internazionale può un paese intervenire? Come e quando può sanzionarne un altro?
La normale reazione contro l’illecito sul piano internazionale si ritiene sia “l’autotutela”, cioè il farsi giustizia da sé. Questo vuol dire che uno Stato, nel momento in cui si ritrovi ad essere vittima di un altro, ha la possibilità di reagire. L’uso della forza, però, è concepibile solo nel caso di una aggressione armata. Nella maggior parte dei casi, infatti, si dovrebbe ricorrere solamente a delle ritorsioni, o dei comportamenti non amichevoli come la rottura dei rapporti diplomatici o commerciali.
Gli altri Stati possono porre in essere delle misure restrittive contro chi ha commesso un illecito internazionale. Agiranno, per esempio, tutte le volte in cui vogliono indurre un cambiamento nella politica o nella condotta che ritengono riprovevole. Questo è difatti ciò che sta accadendo tra Stati Uniti e Russia. I primi, contrari alle politiche estere di Putin (in special modo alla sua ingerenza in Siria), hanno proposto sanzioni di stampo economico. Certo è che ancora oggi rimane dubbio se queste azioni siano legittime. La fonte di questi poteri risiede nella maggior parte dei casi non in fonti pattizie (trattati o patti internazionali) ma nelle consuetudini che da sempre caratterizzano i rapporti fra gli Stati.
Tuttavia, l’adozione di tali comportamenti dovrebbe essere limitata a causa della Carta delle Nazioni Unite, prevedendo che sia il Consiglio di Sicurezza ad agire in tutela della pace. Dapprima si agirà con misure provvisore al fine di prevenire un aggravarsi della situazione (come ad esempio il cessate il fuoco). L’ONU può inoltre obbligare gli Stati Membri ad adottare delle misure contro un altro Stato sia di stampo meno drastico (come l’interruzione dei rapporti diplomatici), sia di carattere più estremo (come un blocco economico totale). Se nemmeno quest’ultima soluzione dovesse funzionare, si potrebbe ricorrere all’ extrema ratio rappresentata dall’utilizzo della forza sotto forma di polizia internazionale. In tal caso, ad intervenire saranno i famosi caschi blu o, in seguito ad autorizzazione del Consiglio, uno Stato terzo, come accadde nella guerra del Golfo.
Assistendo agli eventi che al giorno d’oggi costellano le cronache di guerra siriane, possiamo affermare di essere testimoni (ancora una volta nell’indifferenza e nell’incomprensione pressoché totale della comunità internazionale) di comportamenti che in nessun modo si adeguano alle norme del diritto internazionale, alimentando così un clima di pressione sempre crescente.
Ottavia Dora Lo Sardo