Coloro che lavorano nel settore dei trasporti pubblici (locali e nazionali), svolgono un’attività di grande utilità sociale, finalizzata a soddisfare l’esigenza primaria di ognuno di muoversi e spostarsi in piena libertà dentro e fuori il territorio nazionale. Per questo motivo i lavoratori di un settore tanto nevralgico sono stati in passato sottoposti ad un regime lavorativo molto diverso rispetto a quello applicabile agli altri lavoratori, in riferimento sia ai pubblici impiegati che al lavoratore dipendente nel settore privato.
Ciò veniva ampiamente dimostrato da uno specifico provvedimento di epoca fascista (il Regio Decreto 148/1931) in cui veniva trattata in maniera estremamente puntigliosa la disciplina riguardante il rapporto di lavoro subordinato di questa categoria.
Questo vecchio provvedimento presentava delle caratteristiche pressoché uniche, che per molto tempo lo hanno reso peculiare fra le tante leggi del nostro Paese. Infatti, a differenza di quanto accade oggi, esso aveva la particolarità di rivolgersi non direttamente ad un qualsiasi datore di lavoro, ma ad una vera e propria sezione della Pubblica Amministrazione, non essendovi all’epoca la costituzione di società partecipate da parte dello Stato. Inoltre, a causa della diretta dipendenza del lavoratore dagli organi statali, egli era spesso sottoposto a degli obblighi ai nostri occhi poco giustificabili e, per la verità, incompatibili con la nostra idea di libertà, come ad esempio l’obbligo di traferirsi presso il luogo indicatogli dall’azienda pubblica per svolgere la propria attività. A tutto ciò faceva da contraltare una comunque fitta rete di tutele e diritti a favore del lavoratore, attraverso la previsione di congedi, possibilità di esoneri dal lavoro a tempo determinato e definitivo ed, ulteriormente, anche la previsione di appositi “benefits” quali la possibilità di usufruire, per sé o per i propri cari, di biglietti a tariffe scontate su determinate linee di servizio o, nel caso di specifiche esigenze, la previsione di cure mediche gratuite, l’istruzione scolastica o l’esenzione totale dal pagamento del servizio di trasporto su di una specifica linea. Vi era, infine, anche una serie di criteri di preferenzialità per l’assunzione di nuovo personale, che rispondevano ad una visione del servizio pubblico quasi di carattere assistenziale più che incentrata sull’efficienza.
Tutto ciò discendeva, ovviamente, da una visione molto diversa non solo del servizio pubblico, ma più in generale dello Stato e delle sue attività, basata su di una concezione di esso fortemente autoritaria nei confronti del cittadino, pur garantendo elevati livelli di assistenza sociale. Ma in seguito alla trasformazione della maggior parte dei vecchi enti pubblici in società per azioni controllate dallo Stato, si è assistito anche alla mutazione della disciplina sui rapporti di lavoro, con la possibilità di applicare anche ai lavoratori di questo settore la normativa che regola quello fra privati. Tale conseguenza ha portato con sé inevitabilmente dei vantaggi e degli svantaggi.
I primi si registrano indubbiamente in una concezione del rapporto di lavoro e della sua disciplina più focalizzata sulle esigenze del lavoratore, con un occhio di riguardo alla sua posizione di debolezza contrattuale nei confronti del datore di lavoro e l’applicazione delle tutele fondamentali e generali presenti nel nostro diritto del lavoro, che spaziano dalla tutela per il licenziamento illegittimo e l’applicazione di sanzioni disciplinari solo tramite un’apposita procedura (che possa garantire il più possibile la protezione del lavoratore stesso da eventuali abusi a suo danno), alla tutela della maternità e dagli infortuni sul lavoro. L’altro lato della medaglia, tuttavia, si traduce in un’apertura anche in questo ambito ad una maggiore discrezionalità del datore di lavoro nella gestione della sua attività di impresa, comprendendo anche una maggiore libertà nel diminuire il personale e nella sua gestione interna, liberandosi lo stesso datore da quei limiti granitici che prima influenzavano direttamente l’attività dell’ente pubblico.
Se quanto detto in precedenza era riconducibile, tuttavia, alle mere dinamiche interne del diritto, al giorno d’oggi tali conseguenze sono divenute ancora più esplicite grazie alla legge 124/2015 (o Legge Madia, dal nome dell’attuale Ministro della Pubblica Amministrazione) che, nell’intento di procedere ad una rifondazione della Pubblica Amministrazione, elimina il Regio Decreto 148/1931 dal nostro ordinamento. L’intento del nostro legislatore in questo frangente appare evidente: liberare la disciplina dai vecchi legami con la concezione pubblicistica dei servizi pubblici attraverso la possibilità di applicare anche per essi la più flessibile e funzionale disciplina del rapporto di lavoro subordinato come disciplinato nelle recenti riforme. Ciò significa che anche in tali settori troverà applicazione la nuova formulazione della disciplina sui licenziamenti illegittimi come modificato dalla recente riforma del Jobs Act (art. 18 dello Statuto dei Lavoratori), quella sul contratto di lavoro a tempo indeterminato e sulla nuova forma di previdenza ed assistenza sociale. Il risultato di tutte queste innovazioni è, tuttavia, abbastanza deludente dal punto di vista delle tutele del lavoratore. Infatti appare evidente la debolezza delle tutele ormai approntate a favore dei lavoratori, alimentando quel senso di precarietà che era l’obiettivo principale da combattere ma che ha finito per propagarsi in maniera ancora più ampia, a causa dell’assottigliamento delle ipotesi di licenziamento illegittimo e, di conseguenza, della successiva tutela a favore del lavoratore in nome di una flessibilità che, allo stato attuale, è puramente dannosa.
Nonostante tale ritratto a tinte fosche dell’odierno sistema di tutele a favore del lavoratore, la legge delega non ha saputo spazzare via del tutto la vecchia regolamentazione del rapporto di lavoro della categoria. Infatti, forse per volontà specifica o forse per disattenzione, non è stato eliminato l’art. 1 della legge 270/1988 grazie a cui i contratti collettivi riescono ancora a mantenere la loro efficacia originaria.
Ciò permette da un lato di preservare un certo peso specifico in capo ai lavoratori ed ai datori di lavoro nella determinazione delle condizioni contrattuali più adatte alla tipologia di attività svolta, dall’altro di colmare quelle lacune che, inevitabilmente, si formano a causa dell’applicazione di norme troppo generiche per esaurire l’esigenza di regolamentazione di un settore tanto specifico e peculiare, lasciando in ombra molta della disciplina generale sulla regolamentazione del rapporto di lavoro.
Infine, esiste un ultimo aspetto problematico legato a tale riforma, dipendente dalle dinamiche tipiche del diritto costituzionale. Infatti, come accade per quasi tutte le ultime grandi riforme di ogni settore del diritto, anche in tal caso si è fatto uso dello strumento della delega legislativa, che trova attuazione mediante l’emanazione di una legge delega di origine parlamentare (in questo caso la l. 124/2015) e la successiva emanazione di decreti legislativi delegati al Governo. Tale esercizio differito del potere di creazione delle leggi comporta degli specifici limiti che se superati concretizzano l’eccesso di delega da parte del Governo.
Esso si verifica in tutti quei frangenti in cui il contenuto dei decreti legislativi si discosti, per le più varie ragioni, da quello della legge delega in cui sono contenute le linee guida da seguire fedelmente nell’esercizio di tale funzione.
Nel nostro caso non si può non avanzare perlomeno qualche dubbio sulla liceità e conformità della scelta del governo di abrogare in maniera netta la disciplina precedente, alla luce del fatto che nella stessa legge delega non si parli di modifica sostanziale della normativa sul rapporto di lavoro di tale categoria, ma di una sua semplice “armonizzazione”. Ciò spalancherebbe le porte ad un intervento della Corte costituzionale che, qualora dovesse ravvisare gli estremi dell’eccesso di delega, in nome della sua funzione di “giudice delle leggi”, sarebbe costretta a dichiararne l’incostituzionalità e, di conseguenza, la disapplicazione.
Perciò, anche a causa della forma ancora embrionale del decreto legislativo che dovrebbe portare alle conseguenze giuridiche spiegate (si trova ancora nello stato di schema di decreto, come tale non approvato), si può con tranquillità affermare che tale provvedimento è ancora avvolto da una fitta coltre di dubbio, a causa della spada di Damocle rappresentata dal giudizio di costituzionalità in cui potrebbe incorrere subito dopo la sua approvazione.